Alla fine i Nani ce l’hanno fatta. Espugnare Erebor non era un’impresa facile, eppure Thorin e compagnia ci sono riusciti. Hanno faticato non poco per far schiodare Smaug dalla sala del trono, ormai incazzato nero e pronto a radere al suolo Pontelagolungo. Chi la Durin la vince recita una famosissimo detto nanico e stavolta i bassotti barbuti sono riusciti a confermarlo, al comodo prezzo di uno spettacolo senz’anima tutto effetti speciali e noia da vendere. Il viaggio nella Terra di Mezzo finisce senza clamori e con molti dubbi su di una trilogia che francamente non ha ragione di esistere. Spalmare gli eventi narrati in due soli film era più che plausibile data la mole di scene inutili a cui si abbandona Jackson in tutti e tre i film. La Battaglia delle Cinque Armate riesce a trasformarsi nel capitolo più ricco d’azione dell’intera saga, eppure anche stavolta lo spettacolo fine a se stesso e la scarsa caraterizzazione di alcuni personaggi lo rendono un film stancante e senza contenuti, durante il quale si guarda spesso l’orologio e si perde il filo del racconto per accadimenti palesemente caduti sotto la mannaia infame dei tagli in sala di montaggio. Ecco allora cinque motivazioni solide per cui questo film ha definitivamente esaurito la mia stima verso Peter Jackson, al quale non riconoscerò più nessuna fiducia artistica.
C’è una figura scomoda a Pontelagolungo, un individuo che si fa chiamare Leccasputo, ma il cui nome è Alfrid e la cui recitazione rovina il film. Diversamente dal personaggio Grima Vermilinguo apparso ne Le due Torri, il risultato che si ottiene stavolta è degno dei peggiori b-movie di sempre. Un Jar Jar Binks in carne e ossa che con scatch paradossali ai limiti del ridicolo fa cadere le braccia ad ogni spettatore in sala, interrompendo tra una scena di battaglia e l’altra il pathos che il film cerca faticosamente di creare. Una scelta stilistica che francamente non è chiara dato l’incredibile spazio che viene riconosciuto a Leccasputo a discapito di altri personaggi del libro meno considerati e forse più interessanti (mutaforma Beorn è uno di questi).
Scena da dimenticare: Alfrid vestito da donna che si riempie il reggiseno di monete d’oro.
Il finale brusco che il secondo capitolo ci aveva propinato lasciandoci vagamente inferociti, trova una sua conclusione all’inizio di questo film. Ma mentre nella trilogia dell’anello il regista aveva elaborato dei furbi meccanismi narrativi che ci consentivano di riprendere il filo della storia (ne Le due Torri si ritornava alla battaglia col Balrog a Moria, ma da differente prospettiva) ne La Battaglia delle Cinque Armate veniamo letteralmente sparati dentro il film, nel bel mezzo della distruzione di Pontelagolungo. Non ci è dato tempo di ricordare dove eravamo arrivati un anno fa con la storia perchè in pochi minuti vediamo Bard sulla torre che scaglia una grossa freccia verso uno Smaug incazzato, uccidendolo. La sensazione che rilascia la scena è quella di un arcinemico morto troppo rapidamente e di un protagonista che fa delle azioni apparentemente senza senso. Scenda da dimenticare: Bard usa il figlio a mo di balestra.
Sappiamo bene chi è Sauron e quale peso ha nella storia e nella successiva trilogia dell’anello. Ma allora perchè ostinarsi a non dargli un peso e relegarlo nel ruolo di una minaccia quasi onirica? Diaciamolo chiaramente: abbiamo sperato fino all’ultimo di vederlo in azione in una lotta all’ultimo sangue con Elrond, con la mazza in mano che le da di santa ragione a quello spocchioso orecchie a punta. Invece no. L’ostinazione del regista nel volerlo tenere lontano da questo genere di cose ci ha privato di uno spettacolo per gli occhi che valeva la pena di essere visto, costringendoci per sempre ad accontentarci di quei pochi minuti di battaglia nel prologo de La compagnia dell’Anello in cui il signore di Mordod sbaraglia i nemici a suon di colpi, ma senza esercitare nessun potere sovrannaturale degno della più potente magia nera. Scena da dimenticare: Galadriel che gli fa il culo a Dol Guldur.
Inizialmente gli eserciti si affacciano lentamente sul campo di battaglia. Prima gli elfi e gli uomini, che cercano di trattare una tregua pacifica con Thorin, poi arrivano i nani guidati da Dain a cavallo di un maiale. Arrivano gli orchi e i mannari, più organizzati e strategicamente in soprannumero. Improvvisamente Nani ed Elfi, che fino a un secondo prima si stavano per fare la pelle, combattono insieme contro l’esercito di Azog . Nemmeno a dirlo e la compagnia dei nani dentro Ereborn non ci sta, sfonda un muro con una campana dorata e a bordo di alcune capre da battaglia spuntate dal nulla per lanciarsi nella mischia. Nel mentre pipistrelli giganti e aquile si aggiungono al casino, arrivano anche Gandalf e Beorn. Saltano tutte le strategie belliche, scene senza senso, stacchi incomprensibili, personaggi morti subito e generale disperazione dello spettatore. Scena da dimenticare: Legolas che corre sui macigni frananti di un ponte in frantumi.
Dovrebbe essere il protagonista che traina la storia. Dovrebbe avere il carisma necessario per reggere sulle proprie spalle non un film ma una saga e invece è una delusione totale. Thorin smette i panni del guerriero e si cala completamente nella parte del re folle, ossessionato da chissà quali demoni e corrotto dall’avidità. Purtroppo Richard Armitage non è adatto e sceglie di dare al suo personaggio un taglio shakesperiano ottenendo un risultato penoso. Reazioni lente, elucubrazioni infinite, sguardi taglienti e discorsi vuoti sono il massimo che ci si può aspettare da un Thorin consumato dalla follia. Nessuna azione avventata come nessun segno di cedimento fisico o perdita di controllo. Il re dei nani scivola in una pacata e calcolata insensatezza che francamente non ci arriva ne ci trasmette nulla. E lo sbadiglio regna con lui. Scena da dimenticare: le visioni in cui si vede ingoiato da delle sabbie mobili fatte d’oro.
Ci sarebbero altre dozzine di anomalie in questo film che vanno dall’inutilità di un Gandalf ormai votato a dire cose scontate e fare azioni insulse (la scena in cui cerca di accendersi la pipa alla fine della battaglia è tristissima) a un Bilbo molto poco presente sia nella storia che nella recitazione; dai nani sempre più mal caraterizzati (Bombur chi?) alla patetica storia d’amore Thauriel-Kili; dallo scarso peso riconosciuto alle figure dei nazgul agli altrettanti dimenticati Saruman e Radagast. Insomma del vecchio Peter Jackson oramai non c’è rimasto molto, ormai corrotto dal suo ego e dalla sete di sperimentare chissà quali tecnologie che guardano al futuro prossimo, intento a disprezzare ipocritamente Hollywood ma tanto bravo a fare prodotti American Style. Fortunatamente il capitolo Terra di Mezzo ha trovato una sua conclusione, nella speranza che tra dieci anni il buon Peter non si svegli e decida di mettere le mani sul Simarillion, una potenziale miniera d’oro che farebbe gola perfino a Smaug, i cui diritti però sono rimasti nelle mani degli eredi di Tolkien.