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Funny Games – La recensione

C’è chi me lo rimproverava da tempo: non hai visto Funny Games? Sei Fuori? Così ho rimediato e il risultato è stata una notte di fastidiosi incubi.  Funny Games è una sorta di Arancia Meccanica contemporaneo, remake americano del 2007 di un film tedesco presentato anche a qualche festival in giro per il mondo nel glorioso 1997. Diversamente dal film di Kubrick però qui non c’è il castigo dopo il delitto, non c’è nemmeno il pentimento ne la redenzione, c’è solo tanto perpetrato e disturbante dolore, che va in crescendo, fino all’inevitabile finale.



La storia: la semplicità della storia concentra l’attenzione dello spettatore solo sulla violenza, nella sua forma più sadica, quella del gioco al gatto col topo. Una famiglia felice (Naomi Watts, Tim Roth, e figlio adolescente) è in vacanza in uno stupendo cottage in riva al lago, in un posto pacifico e sereno fatto di prati verdi e case bianche avorio. Sembra la solita storia felice finchè due ragazzi  (Micheal Pitt e Devon Gearhart) vestiti di un bianco candido, appassionati di golf e dall’aria troppo educata, irrompono in casa sequestrando la famiglia senza un vero reale motivo apparente, se non quello della violenza fine a se stessa. Detta così, il film è già abbastanza disturbante di suo. Cosa c’è di più terribile che avere davanti due persone che ti sequestrano e torturano per puro divertimento? Non c’è modo di comprarli col denaro, ne di convincerli a non farti del male, perchè è proprio quello che sono venuti a fare e per cui si sono scomodati tanto. La violenza non è mai mostrata nel film, è sotto intesa. Non abbiamo mai la spettacolarizzazione della violenza fisica nella sua purezza, è più qualcosa di concettuale, di dedotto.


L’inghippo del telecomando: in un determinato istante del film, durante un dialogo cruciale tra Pitt e la Watts, accade qualcosa di inaspettato e difficile da decodificare, poichè esce letteralmente dalla realtà. La Watts in un impeto di disperazione riesce a imbracciare il fucile sul tavolino e freddare sul colpo Devon Gearhart. Pitt, fuori di sè per la morte improvvisa del complice cerca un telecomando tra i cuscini del divano, preme rewind e il film si blocca, per poi riavvolgersi. Le immagini scorrono al contrario per circa mezzo minuto, fermandosi alla conversazione iniziale. Quando la Watts cercherà nuovamente di prendere il fucile, Pitt glielo impedirà salvando la vita al complice. Che significato ha questa scena fuori dal possibile? E’ forse una metafora sull’inevitabilità del destino dei personaggi? Una astrazione metafisica dell’idea che il male vince sempre? Una concettualizzazione sul piano dell’irrealtà dell’impotenza delle vittime sacrificali? Difficile trovare una spiegazione plausibile, ma il fatto che Pitt sapesse che fare una volta riavvolto il film, lo descrive come una figura trascendente, in grado di rimediare ad imprevisti per riportare sui giusti binari il suo piano criminale (clicca qui per vedere la scena).



La ciclicità della storia: all’inizio del film facciamo la conoscenza dei due futuri assassini in compagnia del vicino di famiglia, visibilmente strano e sicuramente già in balia del gioco perverso che successivamente colpirà anche i nostri protagonisti. Sul finale,  i due si presentano di buon mattino dai vicini, dopo aver sterminato la famiglia della Watts. Dunque il cerchio si chiude e anche se non ci viene mostrato, la tortura e l’omicidio si ripeteranno nuovamente. Una sorta di grido di vittoria del male, che perpetrerà i suoi delitti senza possibilità alcuna di essere ostacolato.

Funny Games è un film strano, violento ma allo stesso tempo solare. I colori della pellicola e la delirante gaiezza degli assassini protagonisti,  contrappongono la pellicola ad altre dello stesso genere. La loro maschera di educata normalità ricorda la stessa usata da Patrick Beatman in American Psycho, una devianza che spesso inquieta più di quella alla Saw – L’enigmista poichè ci ricorda che la follia può essere ovunque intorno a noi e con maschere che impediscono di riconoscerla.